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biografia

d'ambros bio_1Se oggi la personalità di Fontana appare dominatrice in quella direzione (lo sfondamento dello spazio e il suo prolungamento al di là dei
confini fisici) nondimeno è giusto riscoprire chi ha risentito di una simile temperie storica.
D’Ambros non solo appartiene alla stessa cultura, cioè ha lavorato nel tentativo utopico di raffigurare le conquiste spaziali proposte dalla scienza, ma lo ha fatto all’interno di un fondamento illusionistico della superficie pittorica, proponendoci una dimensione fantastica che ha conciliato i nuovi media espressivi all’antica tradizione della pittura. A ciò è arrivato in perfetta solitudine, dopo lungo tirocinio espressivo, dandoci delle opere che, in anticipo di quasi un decennio sulla conquista della luna, hanno aperto orizzonti straordinari, pieni di un fascino che oggi andiamo sempre più apprezzando. Un uomo del suo tempo, cioè del tempo dell’ottimismo scientifico della “nuova frontiera”; ma anche un uomo che, nella sua modestia e insieme nella sua consapevolezza, ha tentato di legare due mondi che parevano irrimediabilmente scindersi: quello delle nuove scienze esatte e quello dell’antico umanesimo, basato sui valori universali.
Rivedere, oggi, le sue opere di venti-trentanni fa può essere commovente. Una enorme distanza ci separa da esse, eppure le sentiamo vicine, perché vi scorgiamo l’emozione di un artista genuino, sensibile, puro, che ha percepito il brivido di un’avventura della mente al di là dell’ambito dell’esperienza convenzionale.
Rino D’Ambros era un autodidatta: veniva da una famiglia di umili condizioni. Non ha mai avuto il sussidio dei grandi media. Ha lavorato con passione, in silenzio. Nato a Feltre il 3 settembre 1920 da una famiglia di operai (suo padre dovette emigrare in Svizzera per trovare lavoro) pareva destinato ad una vita di stenti, come tanti altri coetanei in quella plaga dove le condizioni economiche erano piuttosto dure. Sua sorella maggiore, Natalina, lo portò con se nel 1937 a Milano, dove faceva la governante. Il ragazzo era un pò chiuso di carattere, ma intelligente e sensibile. A Milano fece vari lavori: l’imbianchino, poi il decoratore. Si iscrisse subito alla scuola serale di Brera. Tutti i soldi che guadagnava – testimonia la sorella – li spendeva per tele, colori, pennelli, libri d’arte. La salute malferma e lo scarso lavoro lo costringevano a tornare a Feltre d’inverno.
Quando la sorella dovette partire con il marito per l’Africa, nel 1938, la permanenza a Milano si fece ancora più grama. Venne il richiamo alle armi; quindi la guerra, D’Ambros fu inviato in Albania: rientrò in Italia nel 1942 con una grave malattia. Ebbe la fortuna di essere curato per un anno in un ospedale di Innsbruck. Tornato a Feltre, si unì ai partigiani: divenne comandante sul Grappa, combattè valorosamente, fu decorato di medaglia al valor militare. ma la guerra lo aveva fiaccato. Il dopoguerra fu durissimo. Costretto a tornare a Milano, cercò lavoro in direzione affine a quella della pittura, che sempre coltivava. Fu vetrinista, cartellonista; disegnatore per filati in seta; decoratore e allestitore in varie occasioni, specialmente alla fiera e alla triennale; grafico pubblicitario. E nello stesso tempo dipingeva: dipingeva con passione, animato da una sorta di fede cieca nell’arte.
Purtroppo non è facile, oggi, reperire i quadri di quegli anni quaranta cosi duramente vissuti. Mancano spesso le date; talvolta persino le firme. All’inizio fu certo una pittura di impianto impressionistico: eseguita (basti vedere il paesaggio del 1940) con scioltezza di pennellata e armonia cromatica. Siamo in un ambito che direi più veneto che lombardo. Già una figura rivela però lo sforzo di uscire dai moduli precostituiti, tentando magari un tonalismo raffinato e dolente, carico di malinconia (siamo in un momento cruciale della guerra).
L’avvio verso un’apertura culturale di più vasto respiro avviene subito dopo il conflitto. E’ allora che D’Ambros si lega al gruppo di giovani pittori feltrini cui fa da maestro (pur lui giovane di età) Bruno Milano. Ci sono, con D’Ambros, Facchin, Romano Parmeggiani, Corsetti, Piccolotto e altri allievi del Cima (tra cui Mastellotto e Del Col); ad essi si unisce dal 1946, Tancredi. Si radunano in genere nell’oggi scomparso caffè Mimiola, dove fondano una specie di libero circolo artistico. Le direzioni stilistiche del gruppetto sono due: da una parte la prosecuzione del paesaggismo locale, venato di dolcezze cromatiche; dall’altra la lezione del “novecento” (Tosi, Carrà, Sironi ecc.) portata soprattutto da Bruno Milano. D’Ambros (che d’altra parte aveva frequentato Brera e l’ambiente milanese) sceglie ovviamente la seconda strada. Indicativo è, in proposito, un quadro del 1946, intitolato significativamente ricordo dei giorni più tristi: un ritratto di una ragazza dai toni bassi, di impianto a metà tra classicistico e realistico, toccato con una sintesi già decisa e quasi con un senso di mesta ribellione. D’Ambros è un reattivo ma generoso: combatte la sua battaglia anche sul piano sociale e politico. Torna a Milano per il lavoro; ma si fa vedere di frequente nella sua Feltre, soprattutto d’inverno. E’ innamorato d’una ragazza di Quero, Dolores Vanin, che poi sposerà il 26 dicembre 1954. lavora e dipinge; dipinge e lavora. Bruno Milano lo incoraggia; Paolo Orsini, suo grande amico, lo aiuta anche materialmente.

Intorno al 1949-50 la prima svolta stilistica: è l’approccio al linguaggio neo-cubista. D’Ambros frequenta l’ambiente veneziano; ed è là che conosce Pizzinato, Vedova ed altri artisti allora di punta. Temperamento polemico, predica ad alta voce, nelle riunioni al caffè Mimiola, il superamento delle vecchie posizioni. Ecco alcuni quadri, datati 1950, in cui il paesaggio e la scena contadina sono trattati con tagli secchi e una strutturazione dinamica che indica lo sforzo di un rinnovamento non soltanto estetico, ma anche e soprattutto morale. E’ il momento in cui, con il fronte nuovo delle arti, si affaccia il dilemma storico realismo-astrattismo. D’Ambros è portato verso le soluzioni audaci, ma non sa rinunciare all’impegno della rappresentazione. La sua è una cultura di base popolare, innervata dal senso preciso della realtà sociale.
C’e però un momento in cui il fascino dell’astrazione, cioè della pura forma, lo assale. E’ quando, nel 1951, dipinge alla maniera del Vedova “freddo”: incroci di linee rette e intersecazioni di cerchi, a larghi segni neri. Non è esercizio formalistico, tant’è vero che il titolo del quadro offre una lettura simbolico-allusiva: la mia prigione. L’anno dopo siamo ancora più avanti: ecco una composizione (questa si astratta) che richiama Magnelli, con una qualità di segno e una finezza di colore veramente ragguardevoli. Ci sono anche, circa in quegli anni, soluzioni di tipo più picassiano; un paesaggio che richiama vagamente Gino Rossi, con le striature tipiche blu-violette; una composizione con barcaioli vicina al linguaggio scattante di Pizzinato; un gruppo di figure dalla sintesi spiraliforme. Contemporaneamente D’Ambros persegue un’impostazione più tradizionale, anche per comprensibili ragioni di mercato. Sono in genere piccoli quadri, quasi bozzetti di paesaggio, in cui egli tenta di cogliere l’atmosfera della plaga prealpina (il gusto dei pochi acquirenti andava allora verso la maniera di Piccolotto). Tutto ciò mentre si va consolidando nel tempo il lavoro a Milano, che resterà sempre precario.
 Dopo il matrimonio, cioè dalla fine del 1954, D’Ambros si stabilisce a Cavarzere. Il motivo è semplice: la giovane moglie, ostetrica, aveva vinto un concorso nella condotta di quella cittadina. Cio’ cambia nell’ambito delle sue conoscenze e, per qualche verso, anche dei suoi interessi culturali. In precedenza, pur lavorando a Milano, la sua attività di pittore si era concentrata a Feltre, dove aveva anche allestito ben cinque mostre personali (dal 1946 al 1954 ed aveva partecipato a vari premi e concorsi collettivi. Cavarzere lo porta ad avvicinarsi ancor più al mondo veneziano. Ma non lega molto con gli artisti emergenti. Il periodo dal 1954 al 1960 è di maturazione. Pochissime le mostre. Non ci sono molti quadri in giro, di quegli anni; ed è difficile ricostruire le tappe di quello sviluppo che lo portò, verso il 1959-60, alla sua pittura definitiva: cioè allo spazialismo.
E’ stato brusco il passaggio? A giudicare da certi quadri fino al 1958, parrebbe di si. Essi rispecchiano una pittura naturalistica di chiare vibrazioni cromatiche (vedi i buoi del 1955); ma proprio questo puntare tutto sull’estremo frangersi del colore è indice di non voler uscire dagli schemi meramente rappresentativi. Certo è, invece, che tutta una operazione di svecchiamento è proceduta come una corrente d’acqua sotterranea, quasi antefatto alla definitiva svolta. La quale ha dietro di sé un urgere di problemi formali inerenti soprattutto alla qualità della luce.
Non c’è dubbio che D’Ambros sia arrivato, cronologicamente, dopo le soluzioni storiche, italiane e europee, che potremmo identificare nello spazialismo e nell’attiguo movimento del nuclearismo. Si tratta di diffuse sperimentazioni di vari artisti che avevano come obbiettivo di creare una nuova spazialità, in consonanza con le conquiste della scienza: qualcosa che andasse al di là del gioco illusionistico della pittura tradizionale. D’Ambros doveva aver visto a Milano, nel 1951, il soffitto spaziale creato da Lucio Fontana per la triennale; come pure tutta la serie sucessiva dei buchi e dei tagli. L’anno di nascita dello spazialismo viene fatto risalire (ma è un arretramento discutibile) intorno al 1947, quando Fontana, appena tornato da Buenos Aires, lancia il primo manifesto di fondazione del gruppo spaziale. Era, quello, un atto piuttosto fumoso e utopistico.
Qualche anno dopo si formò, in realtà, un gruppo di artisti che lavoravano sulla spazialità pura, sia all’interno dello spazialismo, sia nell’attiguo movimento del nuclearismo (sorto nel 1952). Come sempre succede, le realizzazioni pittoriche non furono tutte conseguenti all’assunto teorico. L’unico vero spazialista resta Fontana; accanto e attorno a lui gravitano altre personalità di diversa formazione, da Capogrossi a Guidi, da De Luigi a Scanavino, da Crippa a Dova, fino ad artisti stranieri come Matta e Jorn. Le due città dello spazialismo furono da una parte Milano e dall’altra Venezia (dove c’erano artisti, oltre ai citati, come Bacci, Morandis, Finzi, Gaspari e lo stesso Tancredi). Come si vede, non a caso Milano e Venezia erano anche i due poli su cui gravitava il nostro Feltrino.
In realtà, D’Ambros – va sottolineato – restò al di fuori da ogni intruppamento, anche se entrò ad un certo punto in contatto frequente con la gallerista e animatrice culturale Fiamma Vigo, partecipando alle sue mostre a Venezia e a Roma, assieme ad artisti a lui culturalmente attigui. Ma Fiamma Vigo era (lo ricordiamo di sfuggita) una donna straordinaria che dedicò tutta la sua vita a sorreggere l’avanguardia, fino a dover arrendersi, lei così generosa e poco speculatrice. Per il resto, a parte alcune personali dopo la svolta spazialista (Cavarzere, Padova, Milano, Feltre, Firenze, Roma, Venezia, Bologna) e la partecipazione a collettive anche importanti, D’Ambros rimase un isolato: ebbe considerazione critica anche alta, ma con frutti ben magri. Lo sorreggevano alcuni amici di Cavarzere (ne ricordiamo alcuni tra quelli che non ci sono più: Sacchetto, Capon, Sattin, Rodella, Gregianin, De Franchis, Frezzato) con i quali collaborò per svecchiare l’ambiente artistico; e dopo la sua morte un centro cultura diretto da Mario Rando, verrà intitolato significativamente al suo nome.
Certo è che già nel 1959-60 la pittura spazialista di D’Ambros ha una sua fisionomia precisa, anche se la prima mostra personale in cui venne presentata è del 1966 a Padova. I quadri sono superfici rugose (sabbie, terre gessi ecc.) su cui insistono dei buchi come impronte, oppure dei grumi rotondi: il tutto avvolto da una luce radente colorata. a parte l’artificio tecnico, cioè la fissazione del flusso luminoso, il referente primo resta Fontana. D’Ambros però rifiuta quella sorta di astrazione spaziale che evita l’evidenziazione materica; al contrario accentua l’impatto della luce sulla crosta materica, ottenendo risultati simili a quelli delle prime foto spaziali (anzi, anticipandone gli effetti spettacolari). Non a caso nel 1970, subito dopo la conquista della luna da parte degli astronauti, egli avrà un’ondata di notorietà, soprattutto quando Trieste lo inviterà per una mostra personale al Festival del Film di Fantascienza. In quell’occasione le immagini, così suggestivamente scabrose, dei quadri di D’Ambros finirono sui mass media; e gli venne affidata la redazione del manifesto del festival, nonché la creazione della scultura-premio, l’ “asteroide d’oro”, che egli forgerà in una vetreria di murano.
Lo spazialismo di D’Ambros non restò comunque mai ancorato ad una formula. Egli era un ricercatore, uno sperimentatore accanito. La moglie ricorda certi giochi quasi alchemici per ottenere effetti sempre più originali, come quando lui metteva la tela per terra e lei con una candela lasciava cadere le gocce di cera nei punti prestabiliti. Nascevano opere soprattutto a cerchi concentrici e a spirali, sia attraverso rilievi, sia attraverso giustapposizione di minuscole sfere; si aggiungevano superfici cretose e ispide come crateri lunari, ritmi nello spazio che si dipanavano con estro brillante. E’ qui che va indicato come referente, oltre a Fontana, anche Crippa; e con lui altri artisti che tendevano ad evidenziare i ritmi dello spazio. Basterà citare un maestro come Hartung oppure, per le soluzioni materiche, Fautrier e lo stesso Tapies.
Questo uscire dalla bidimensionalità pittorica fa di D’Ambros un artista sperimentale polimaterico, che ricerca effetti lancinanti di luce, tendenti a darci una dimensione extraterrena, vicina a una arcana armonia siderale e quindi nutrita anche di una sorta di un concetto matematico, se non filosofico. Le ellissi, cadenzate dalle piccole sfere illuminate lateralmente, ci danno la percezione di un infinito cosmico, in cui la mente galleggia verso la vertigine dell’assoluto. I nostri occhi, attratti dal fascino della luce radente, scoprono mondi meravigliosi e, dietro di essi, una segreta tensione verso un ordine nuovo, una perfezione che va al di là delle nostre stesse capacità di immaginazione. Insomma, D’Ambros raggiunge il limite, il bordo estremo di un universo nel quale la fantasia può tuffarsi, come un’avventura nell’ignoto. Sono quadri che oggi sempre di più, ci appaiono illuminati da uno splendore che non è soltanto fisico (il trucco illusionistico della pittura) ma anche mentale.
Così, per una quindicina d’anni D’Ambros lavora tessendo la sua magnetica tela fatta di luce cosmica. Assapora appena i sucessi: fa altre mostre (Venezia,Padova, Cavarzere, Feltre, l’ultima a Treviso); inventa manifesti straordinari per il Festival di Trieste; partecipa anche, sia pur marginalmente, alla biennale del 1970, chiamato da Umbro Apollonio che lo stimava. Purtroppo gli è mancata la grande esposizione pubblica, con quella monografia cui egli pensava ma che non è stato possibile realizzare. Si sa, non basta la qualità della pittura per imporsi; occorrono supporti di alto mercato e di grandi musei. D’Ambros – spirito inquieto e polemico, buono fino all’ingenuità, poco disposto ai compromessi – è stato, così, messo in disparte dai “padroni del vapore”. Le maggiori mostre sullo spazialismo non lo citano neppure. Ma a Feltre come a Cavarzere, a Venezia come a Milano, ed anche a Roma dove abitò negli ultimi quattro anni, fino all’infarto che lo colse ad Ariccia il 24 aprile 1974, ci sono critici, amatori, collezionisti, pittori, amici che si ricordano di lui e che conservano con amore le sue opere.
Lui diceva ogni tanto alla moglie Dolores: “i miei quadri ora non li capiscono, o li capiscono soltanto in superficie. Li capiranno tra trenta-quaranta anni, quando io non ci sarò più”. Ora sono passati proprio trentanni da quel 1959-60 in cui la pittura di D’Ambros si aprì alla sua affascinante dimensione spaziale. Lui non c’è più. Ma è venuto il momento di capire: è prima di tutto, di conoscere.

Paolo Rizzi – 1990. (tratto dal catalogo della mostra “Bonsembiante, D’Ambros, Soppelsa” Galleria d’Arte Moderna Carlo Rizzarda – Feltre).